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Un Dio quasi perfetto

Nella cronaca recente si parla di riavvicinamento e dialogo tra cristiani ed ebrei. Ma il nodo, sostiene la lettura qui proposta, non è la buona volontà attorno a un tavolo, bensì la natura del Dio al centro delle rispettive tradizioni. Il punto di partenza è netto: il Dio degli ebrei non è conciliabile con il Dio dei cristiani. Non per polemica, ma per semplice aderenza a ciò che i testi affermano quando li si legge letteralmente e senza sovrastrutture teologiche.

Il percorso segue il consueto metodo del “facciamo finta che”: fingiamo, cioè, che i testi dicano ciò che realmente scrivono, senza forzarli in dottrine successive. La lente privilegiata è il Libro dei Giubilei (II sec. a.C.), testo accolto come scrittura sacra dalla cristianità copta e giunto a noi in lingua Geez. Una traduzione letterale, come dichiarato dall’edizione UTET cui si fa riferimento, ci consente di isolare le dichiarazioni più esplicite sul rapporto tra Dio e Israele, sul tema dell’elezione, della predestinazione, del sabato e del patto.

Lettura letterale e contesto del Libro dei Giubilei

Il Libro dei Giubilei si presenta come una grande riscrittura della storia biblica dalla creazione fino all’Esodo (più o meno fino a Es 12), sotto dettatura divina a Mosè tramite l’angelo della Presenza (malach che “sta sempre con lui”). Importante il contesto: l’autore, probabilmente vicino all’ambiente essenico, scrive in un Medio Oriente ellenizzato, in cui la filosofia greca spinge verso concetti universalistici e un Dio metafisicamente perfetto. Nonostante ciò, Giubilei ribadisce l’idea antica: il Dio di cui parlano le Scritture è il Dio di Israele, non un ente astratto universale, e stabilisce un rapporto esclusivo con una famiglia concreta.

«Scrivi per Mosè… finché tutti sapranno che sono il Dio di Israele, il padre di tutti i figli di Giacobbe e il re sul monte Sion. E Sion sarà santa e anche Gerusalemme.»

(Giubilei, cap. 1; citazioni riportate secondo la traduzione letterale UTET)

Sin dall’avvio, dunque, l’orizzonte è particolare: Dio non si presenta come “Dio del mondo” in senso moderno, ma come Dio d’Israele, re di Sion, padre dei figli di Giacobbe. È questa la chiave che l’ellenismo non riesce a dissolvere.

“Venimmo presso Abramo”: pluralità e concretezza

Giubilei riprende un episodio già noto in Genesi 18: l’arrivo presso Abramo di tre visitatori, riconosciuti come appartenenti al gruppo degli Elohim. Nel racconto dei Giubilei la voce è “di Dio”, ma il testo conserva tracce significative:

«Venimmo presso Abramo al pozzo del giuramento… ritornammo nel settimo mese…»

Questa prima persona plurale non è un capriccio stilistico; nella lettura letterale richiama la dimensione di gruppo di quegli esseri. In parallelo, l’autore sottolinea che da Isacco – non da tutti i figli di Abramo – deriverà la stirpe santa, destinata a essere “parte dell’Altissimo” e a stare sotto il suo dominio quando “il Signore, essendo disceso in Terra”, abiterà in mezzo a loro. La teologia tardo-giudaica preferirà un Dio immobile e “altro”; Giubilei conserva la traccia operativa, storica, localizzata: un Dio che scende, sta, governa, fa patti, pretende segni.

Predestinazione ed elezione: prima della scelta, c’è la separazione

Il testo è chiaro: l’elezione precede la storia. Prima ancora che le linee familiari si sviluppino, esse risultano predestinate:

  • Isacco è designato come santa progenie;
  • Ismaele e la sua discendenza, pur figli di Abramo, non sono avvicinati;
  • Esaù, gemello di Giacobbe, è escluso;
  • solo Giacobbe/Israele viene santificato e riunito “fra tutti i figli dell’uomo”.

La santificazione (qadosh) significa separare, mettere da parte per qualcuno: non indica una perfezione morale universale, ma appartenenza. Giubilei precisa perfino che non furono santificati tutti i popoli e che il sabato, su cui torniamo, è segno e privilegio d’Israele.

Questa logica è coerente con Deuteronomio 32, dove Elyon “divide le nazioni” e assegna a ciascuna un figlio degli Elohim; Yahweh prende Giacobbe come “sua parte” e Israele come “sua eredità”. Il quadro è politico-sacrale: le nazioni hanno governatori (angeli/Elohim); Israele no: su Israele regna direttamente il suo Dio, che “non diede ad alcun angelo il potere su Israele”.

Il patto e il segno: la circoncisione come “documento” di appartenenza

La circoncisione è, in Giubilei, un patto eterno e generazionale che sigilla l’appartenenza. Non è benevolo consiglio etico, ma mark di alleanza: un segno identitario attraverso cui Israele riconosce e viene riconosciuto. L’autore ribadisce che il patto non riguarda i rami esclusi (Ismaele, Esaù). In termini moderni, potremmo dire che Giubilei mette per iscritto il “contratto di esclusiva” che regola i diritti e i doveri di Israele rispetto al suo Dio.

Questa lettura cozza con una visione universalistica posteriore, ma è perfettamente in linea con il lessico biblico più antico, dove i patti sono familiari, tribali e nazionali, non “umanitari” in senso filosofico.

Un Dio che agisce nella storia e col tempo

Un altro elemento spesso trascurato: il tempo. Giubilei apre con la divisione degli anni, dei settenni e dei giubilei. Il Dio descritto è attento ai calendari, agli ordini, ai ritmi; non è l’Eterno astratto che “non ha tempo”, ma un signore della storia.

«Questo racconto della divisione del tempo è secondo la legge e per testimonianza… calcolati in tutti gli anni del mondo.»

Da qui la sensazione di “contraddizione” rispetto alla teologia dell’immutabilità. Laddove il pensiero ellenistico spinge verso un Dio perfetto, impassibile, immutabile, Giubilei e ampie porzioni dell’Antico Testamento continuano a mostrare una divinità operativa: che discende, benedice, minaccia, si pente, cambia idea, punisce o sospende il castigo. La storia, per dirla con le parole della trascrizione, “esplode” e rifiuta di essere sepolta sotto il cemento delle elaborazioni successive.

Sabato: la chiave della separazione

Punto chiave della “separazione” è il sabato. In Giubilei, Dio sceglie la stirpe di Giacobbe e la iscrive come figlio primogenito, santificandola per sé:

«Fra quelli che ho visto, ho scelto… la stirpe di Giacobbe… E non santificò tutti i popoli, ma santificò solo il popolo di Israele. Ad esso solo concesse di mangiare e bere e di riposarsi in esso sulla Terra.»

Il sabato non è un dono “a misura d’umanità”, è un segno identitario concesso a Israele; dalla prospettiva dei Giubilei, gli altri sono “gentili” fin dall’inizio, predestinati a non far parte di questa separazione. Qui si coglie la distanza insanabile rispetto alla prospettiva cristiana, che universalizza i segni (battesimo, eucaristia, domenica) e propone un Dio per tutti.

Dal “Dio dei Padri” al “Dio perfetto”: la rivoluzione teologica

Il curatore dell’edizione UTET, professore emerito di Filologia biblica (ebraico e aramaico), nota che l’autore dei Giubilei risente delle preoccupazioni del suo tempo: la nascente teologia ebraica (e poi cristiana) si muove verso un Dio unico, creatore ex nihilo, onnipotente e immutabile. Concetti che non sono chiaramente presenti nella Bibbia antica, dove bara’ non implica necessariamente una creazione dal nulla e dove Dio interagisce e si compromette nella storia.

La tensione è esplicita: il Dio perfetto “non può non essere immutabile”, ma i racconti continuano a rappresentare un governatore che si muove, decide, reclama per sé un popolo, rivendica proprietà e difende confini. L’Antico Testamento e gli studi citati nella trascrizione (ad esempio la studiosa ebrea Lia Bat Adam) restituiscono un profilo caratteriale di Yahweh tutt’altro che “apollineo”: geloso, esclusivo, esigente, punitivo, irato, feroce, ma anche saggio e terribile. Una personalità “non di facile contentatura”, ben lontana dall’ideale del Primo Motore immobile.

Deuteronomio 32: una mappa geopolitica del “sacro”

Per comprendere la cornice, Deuteronomio 32 è decisivo: Elyon “l’Altissimo” divide le nazioni tra i figli degli Elohim; a Yahweh tocca Giacobbe. Ne deriva una vera e propria geopolitica del sacro:

  • ogni nazione ha il suo angelo/commissario;
  • Israele è sotto Yahweh senza intermediari;
  • la legge e i segni (sabato, circoncisione) valgono per Israele;
  • gli altri popoli sono “le genti”, goyim, fuori dalla santificazione.

Questa mappa contrasta con l’universalismo cristiano successivo, che postula un Dio per l’umanità e una salvezza estesa a tutti.

Perché creare gli “altri popoli?”: la provocazione e la possibile risposta

Se Dio vuole un popolo per sé, perché mettere al mondo gli altri? La domanda, in Giubilei, resta spiazzante. La trascrizione propone una pista che viene dal Talmud, raccolta in un passaggio di Shimon ben Zomà: il lavoro delle nazioni renderebbe più agevole la vita d’Israele. È una formulazione moderata rispetto ad altre affermazioni riportate nel vasto corpus talmudico, ma suggerisce una funzione strumentale delle genti nei confronti del popolo eletto. Non è un dogma, è un punto di vista antico che aiuta a capire perché esistano “gli altri” nella logica di un Dio particolare e partigiano.

Due vie di fede senza possibilità d’incontro

A questo punto, l’esito è inevitabile: il Dio dei Giubilei/Antico Testamento e il Dio del cristianesimo non si sovrappongono. Il primo è locale, esclusivo, patrizio (nel senso di pater familias), vincolato a patti, governatore con un popolo suo; il secondo è universale, metafisico, immutabile, “Dio per tutti”. Per questo il dialogo umano, politico, culturale, è sempre possibile e auspicabile; ma teologicamente, le due figure rimangono inconciliabili.

  • La via cristiana chiede fede in ciò che non si vede, l’adesione a un mistero universale.
  • La via ebraica chiede fiducia nel mantenimento delle promesse fatte nel tempo da Yahweh al suo popolo.

Sono atti diversi, fondati su immagini diverse di Dio. Il tentativo di “eliminare i malintesi” rischia di sorvolare sul nocciolo: non è un fraintendimento terminologico, ma due teologie incompatibili.

La mia conclusione: leggere i testi fino in fondo

Il Libro dei Giubilei, letto letteralmente, non attenua ma accentua il profilo particolare del Dio biblico: scende sulla Terra, sceglie una stirpe, pretende segni, stabilisce calendari, santifica un giorno per quel popolo, esclude altri rami familiari e non affida Israele a nessun angelo. È un Dio storico, esclusivo, rivendicativo: un governatore in mezzo ad altri governatori (Elohim), con Elyon come vertice.

Da qui la frattura con il Dio universale del cristianesimo. Non è questione di buone maniere teologiche; è la differenza ontologica tra due modelli di Dio. Si può e si deve dialogare su etica, memoria, pace, ma senza fingere che i testi dicano ciò che non dicono. La storia (e Giubilei è storia “sacra” in forma di cronaca) resiste alla colata di cemento delle sistemazioni teoriche. E se la si ascolta, ci ricorda che non sempre è “il Dio del mondo” a parlare: spesso, è il Dio d’Israele a rivendicare Israele.

Come sempre, la proposta è metodologica: facciamo finta che i testi dicano ciò che leggiamo. E poi, da lettori liberi, ognuno tragga le sue conclusioni.

Domande frequenti (FAQ)

Che cos’è il Libro dei Giubilei?
È una riscrittura in chiave “cronologica” della storia biblica, dalla creazione fino all’uscita dall’Egitto, presentata come rivelazione a Mosè tramite l’angelo della Presenza. È ritenuto canonico in alcune tradizioni (come i copti) e parabiblico in altre.

Il Dio dei Giubilei è universale o particolare?
Particolare: si identifica esplicitamente come Dio d’Israele, “padre dei figli di Giacobbe” e “re di Sion”. Il rapporto è esclusivo e fondato su patto.

Perché la circoncisione è centrale?
Perché è il segno del patto eterno: un documento corporeo che certifica l’appartenenza di Israele. Non riguarda tutti i discendenti di Abramo: Ismaele ed Esaù sono esclusi.

Che ruolo ha il sabato?
È il segno identitario concesso solo a Israele: Dio non santifica tutti i popoli nel sabato, ma separa Israele e gli concede di “mangiare, bere e riposare” in quel giorno sulla Terra.

Cosa insegna Deuteronomio 32?
Mostra la divisione delle nazioni tra i figli degli Elohim: Yahweh prende Israele come propria eredità. Ne risulta un quadro plurale di poteri “sovrannaturali”, con Yahweh direttamente sopra Israele.

Come si è arrivati al Dio “immutabile” del cristianesimo?
Per un’evoluzione teologica iniziata già in ambiente ebraico post-esilico e accelerata dal contatto con l’ellenismo: si affermano l’unico Dio, la creazione dal nulla, l’immutabilità. Ma i testi più antichi conservano la memoria di un Dio dei Padri diverso: mobile, interattivo, esigente.


Testo di riferimento: Apocrifi dell’Antico Testamento. A cura di Paolo Sacchi, vol I. Libro dei Giubilei (traduzione di Luigi Fusella). UTET – De agostini, Novara, 2013.

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