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Stato-Nazione e Bibbia (ricordando Amalek)

Nel mio lavoro faccio una cosa semplice: leggo la Bibbia letteralmente, “facendo finta che sia vera”, e la uso come lente storica per interpretare l’attualità. Non basta di certo la Bibbia per spiegare geopolitica, interessi e strategie; ma alcuni snodi del presente — Israele, la legge sullo Stato-Nazione del 2018, il richiamo politico ad “Amalek” — diventano più comprensibili se li osserviamo in continuità con il testo biblico.

2018: la legge sullo Stato-Nazione e l’eco biblica dell’identità

Nel 2018 la Knesset approva la legge che definisce Israele “patria storica del popolo ebraico”, incoraggia comunità riservate agli ebrei e declassa l’arabo da lingua ufficiale a lingua “a statuto speciale”. Come ha scritto Gideon Levy su Haaretz, questo passo codifica in forma esplicita una priorità identitaria che rende difficile la formula “ebraico e democratico” allo stesso tempo. Anche figure istituzionali israeliane hanno espresso perplessità.


Da lettore della Bibbia, vedo qui riaffiorare una matrice antica: Yahweh vuole un popolo distinto, “consacrato”, erede di Giacobbe/Israele e delle dodici tribù. La narrazione biblica — dalla chiamata di Abramo (circa 4.000 anni fa) alla conquista di una terra già abitata — è storia di separazione e appartenenza. Questo non “giustifica” nulla nel presente, ma spiega perché certe scelte trovino una cornice simbolica pronta all’uso. La Shoah è una cesura drammatica che segna la modernità, ma non esaurisce il tema della legittimazione politica odierna. La legge del 2018 traduce giuridicamente un’identità che la Bibbia aveva già tematizzato in modo netto.

“Ricordatevi di Amalek”: quando il lessico sacro diventa codice politico

In tempi recenti Benjamin Netanyahu ha detto: “Ricordatevi di Amalek.” Chi è Amalek? Genesi 36 lo colloca nella discendenza di Esaù, fratello gemello di Giacobbe. In Esodo 17 gli Amalekiti attaccano Israele a Refidim: io leggo l’episodio senza filtri teologici — Mosè sale sul colle e alza le mani come un segnale militare per sostenere il morale dei suoi, finché Giosuè prevale. Il punto nodale è però 1 Samuele 15: Yahweh ordina a Saul di “votare allo sterminio” Amalek; Saul risparmia il re Agag e il bestiame migliore e perde il regno perché “l’obbedienza vale più del sacrificio”.


Giuseppe Flavio, nelle Antichità giudaiche, descrive in modo ancor più esplicito assedi, macchine da guerra e la strage “a cominciare da donne e bambini”, giustificata come obbedienza all’ordine divino. Ecco perché il richiamo ad “Amalek” agisce oggi come un codice di nemico assoluto e di annientamento: una parola breve, ma con un carico semantico tanto potente da attraversare i millenni e atterrare nel dibattito contemporaneo.

Il caso Jaeger (1960): quando la Bibbia diventa alibi normativo

Nel 1960 il giurista e giudice costituzionale Nicola Jaeger, in Il diritto nella Bibbia, arriva a considerare le “guerre di annientamento” come esito dell’istinto di conservazione, fino a definire “modesti” — rispetto ai genocidi moderni — i tentativi di tremila anni fa. Cito questo passaggio perché mostra la deriva sempre in agguato: se il testo sacro diventa fonte normativa diretta per la politica, allora la violenza ottiene una giustificazione retrospettiva. Io non lo accetto: la Bibbia, letta alla lettera, ci dice cosa c’è scritto ma di sicuro non ci autorizza a ripeterlo.

Bibbia come storia attiva (ma non assolutoria)

Ribadisco: la Bibbia è anche storia. In Israele l’archeologia ha identificato 53 personaggi biblici attestati da fonti esterne (da Egitto, Siria, Moab, regni di Israele e Giuda, Babilonia, Persia). Dati utili, certo, perché confermano la storicità di molti passaggi. Ma “storico” non significa “prescrittivo”. Le Scritture possono aiutarci a capire le matrici culturali del presente — lessico, simboli, genealogie politiche — senza per questo assolvere le scelte di oggi. L’uso politico della Bibbia resta terreno scivoloso: più la si cita, più è necessario leggerla con precisione filologica, senza filtri teologici e senza trasformarla in arma.

Conclusione

La Bibbia, letta alla lettera, resta “attiva” nel presente: modella identità, lessico e immaginario politico. Ma per me non è — e non deve diventare — una scorciatoia morale né un lasciapassare per le scelte di oggi. Le due piste di cui ho parlato — la legge sullo Stato-Nazione del 2018 e il richiamo ad “Amalek” — mostrano quanto il patrimonio biblico continui a orientare discorsi e decisioni; proprio per questo impongono una responsabilità maggiore: usare le Scritture per comprendere, non per colpire; per leggere la storia, non per riprodurre l’annientamento.

Il mio metodo rimane semplice: leggere ciò che c’è scritto, senza filtri teologici, collocarlo nel suo contesto storico e riconoscere quanto quel lessico agisca ancora. “Obbedienza più del sacrificio” non è una licenza di violenza nel presente; “Amalek” non può diventare un codice che trasforma il nemico in bersaglio assoluto. La storicità del testo — confermata anche dai molti personaggi biblici attestati fuori dalla Bibbia — non è un mandato politico: non assolve nessuno. La responsabilità delle scelte appartiene agli uomini di oggi, al diritto internazionale, alla politica, all’etica.

Quaranta secoli dopo Abramo, i cieli possono “continuare a essere in fiamme” non perché la Bibbia lo imponga, ma perché noi decidiamo come usarla nello spazio pubblico. Io propongo questo: precisione filologica, memoria storica e assunzione di responsabilità. La Bibbia può aiutarci a capire; non può — e non deve — assolvere

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